I migranti di Delta Park: Una terra promessa?

A volte un film può essere un ottimo strumento di comunicazione per sensibilizzare gli animi degli spettatori nei confronti di una specifica questione. E’ questo il caso di Delta Park, lavoro del regista italiano Mario Brenta e della belga Karine de Villers, che prova a raccontare la lunga ed estenuante attesa dei migranti, all’interno di un hotel italiano che ospita profughi che aspettano il visto per proseguire il loro lungo viaggio verso la speranza.

“Si ode il rumore del mare. Un bambino occhialuto sulla spiaggia guarda una scarpa che il mare ha abbandonato sulla sabbia. Quando se ne va, va verso casa o verso…una terra promessa?”

Frame del film

Con tale immagine suggestiva, ha inizio Delta Park, film documentario di due rinomati registi Mario Brenta e Karine de Villers che, attraverso un inusuale sguardo sulla condizione dei migranti, creano un’opera originale, fuori da ogni cliché.

Già coautori di altri film quali Calle de la pietà, Agnus Dei, Corps à corps, Black Light, Mario Brenta e Karine de Villers fotografano una realtà che non si sofferma sulle stereotipate traversie di viaggi “mediterranei o alpini”, ma va oltre il bistrattato dramma dei migranti, per dirigersi verso un’osservazione analitica di una quotidianità reiterante, che pone lo spettatore in uno stato di attesa in stile “beckettiano”. Il film, infatti, nasce nell’attesa e permane in questa lunga attesa senza soluzione.

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L’idea nasce per caso: Mario Brenta è chiamato da un albergatore a valutare la situazione di un hotel che, sovvenzionato dallo Stato, riesce ad arginare il fallimento, trasformandosi in un centro di accoglienza per migranti: il Delta Park.

I registi, durante la fase di realizzazione del documentario, si imbattono, tuttavia, in una realtà insolita, ben diversa dalle aspettative, che impressiona non per le condizioni fisiche in cui vessano i migranti, ben vestiti, ben nutriti e ben curati dal Delta Park, ma per la loro condizione psicologica. “Soffrire a lungo non è come un lungo sopportare. La sopportazione ci insegna ad essere pazienti, ma il soffrire a lungo è solo una lunga pena”, afferma uno dei migranti. In quel luogo di serenità si cela un’altra verità, quella di un quotidiano apparentemente percepito come terra promessa che non si rivela tale.

I migranti trascorrono le loro giornate nell’albergo, che certamente li rifornisce dei beni essenziali alla sopravvivenza, ma che si rivela un limbo da cui non si può uscire, pena la perdita del diritto di accoglienza. Nell’attesa di un visto che mai arriverà, sopravvivono in uno “spazio-tempo”  sospeso tra realtà e finzione. Tutto si ripete, in questo tempo scandito dai rintocchi delle campane e di un orologio a pendolo che funziona male: i suoni, forse gli unici dispensatori di una realtà empirica, rimbombano nelle immagini statiche di persone e di ambienti minimali, un po’ incolti, quasi inanimati.

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Si attende. Si attende l’inizio del giorno, si attende la colazione, si attende il pranzo, si attende la cena, si attende la sera per andare a dormire. Le abitudini diventano regole senza eccezione, che cadono in un manierismo macchinoso, scandito dal ritmo della ripetitività. Tra un’attesa e l’altra, per occupare il tempo, si passeggia per le campagne, si canta, si balla, si riparano le scarpe, si gioca a calcio, si prendono lezioni di italiano, si guarda la tv, ci si reca allo sfascio per recuperare qualche bicicletta da aggiustare, ci si annoia.

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E’ proprio la noia, questa inoperosità a generare sofferenza. Il tutto avviene in uno spazio, un purgatorio forse, dove sono raffigurati paesaggi di fabbriche, cantieri, negozi in via di chiusura, al cospetto di una rigogliosa vegetazione, di una natura selvaggia ed affamata di artificio, di costruzioni abbandonate. Natura versus Uomo: un binomio intimistico che viene illustrato in un viaggio alimentato dalla falsa speranza di un qualcosa che mai accadrà. Tuttavia, la staticità degli ambienti e la reiterazione delle azioni, appositamente volute dai registi, creano uno stile armonico monotono, inducendo lo spettatore in uno stato di sospensione che paradossalmente non esclude l’aspettativa di un risultato positivo.

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Tale cinema intimista e simbolico, proprio di un maestro come Mario Brenta e della filmmaker Karine de Villers, è un cinema che, riflettendo se medesimo ed oltrepassando la vetta della scrittura, raggiunge il cosmo circostante, attraverso un viaggio inscritto nella purezza di un’immagine comunicativa, simbolica. Il sentimento di potenza oscura ed illogica, celato nelle trame del telo immaginario, si svela poi nell’interrelazione tra le stesse immagini, che rivelano il vero dramma, quello dell’insoddisfazione umana.

Nella messa in luce di un testo filmico così poliedrico, Mario Brenta e Karine de Villers riescono, dunque, a trasmettere sensazioni reali, comunicando un “meta-messaggio” che va ad analizzare un’atavica ricerca, volta al continuo desiderio di un qualcosa che esiste nell’immaginario, ma che si imbatte nel duro porto della realtà.

“Quale sarà l’ultimo porto dove getteremo l’ancora per non ripartire mai più?”. Questo recita la didascalia finale di Delta Park riprendendo non a caso un passaggio di Moby Dick, grande romanzo-metafora sull’esistenza e sull’essenza dell’uomo e dei suoi ideali. Una domanda a cui è difficile se non impossibile rispondere.

 

Elena Petrillo

PHI Foundation

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